Diario di viaggio dal Mozambico: parte 5

La salute sembra una cosa facile da definire: se ne parla sempre, e col COVID la situazione non ha fatto che peggiorare.

Se ci chiedessero quali sono i fattori che la influenzano, a molti di noi verrebbero in mente grandi ospedali, bravissimi e infaticabili chirurghi (e pure bellissimi, gli/le appassionati/e di medical dramas capiranno) che operano a cuore aperto in interventi di 15 ore, sirene di ambulanze, ossigeno e farmaci dai nomi impronunciabili.

In effetti non c’è nulla di sbagliato, la salute (o meglio, la sanità) è anche questo. Il concetto di salute però non si esaurisce qui.

La definizione dell’OMS è di uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non come la mera assenza di malattia. Ora, tolto la quasi impossibilità di essere in un completo stato di qualsivoglia benessere (il termine è infatti contestato in alcuni ambienti medici), capiamo che stare bene non vuol dire solo avere un bravo ortopedico che ci sistema il braccio rotto, per quanto sia tutto parte del quadro.

La salute è un quadro sfaccettato e il suo mantenimento è un gioco di fattori più o meno concreti, alcuni dei quali sono influenzati da sovrastrutture più grandi e poco controllabili dal singolo, ma su cui è sempre importante rimanere vigili. Parliamo infatti di determinanti sociali di salute e intendiamo dire che non esiste salute senza equità, senza istruzione, senza casa, acqua pulita, un lavoro soddisfacente pagato in maniera giusta, senza l’accesso ad un cibo nutritivo e sano, senza rispetto dell’ambiente. 

Ci tenevo a porre una cornice concettuale per raccontare la mia esperienza come medica in Mozambico. Premetto che questa non vuole essere una descrizione oggettiva, esaustiva e senza errori della situazione sanitaria di un Paese, quanto una raccolta e rielaborazione dei miei pensieri, conoscenze ed esperienze maturate nella mia breve carriera di medica e durante i sei mesi trascorsi in Mozambico. Io lavoro in sanità pubblica, branca della medicina che si occupa della prevenzione e dell’organizzazione sanitaria, quell’insieme di cose che, se tutto va come deve andare, neanche ci accorgiamo che esistono. L’ONG con cui lavoro si occupa di sostenere il servizio sanitario mozambicano in modo da permetterne il rafforzamento e garantire l’offerta di prestazioni della qualità migliore possibile

Per inquadrare in poche parole la situazione del Paese bastano due cifre: l’aspettativa di vita, di 60 anni, e i 2.2 milioni di casi di HIV (dati del 2019), che lo rendono il secondo Paese al mondo per numero assoluto di sieropositivi, preceduto solo dal Sudafrica. La piaga dell’HIV è il problema più evidente e si stima che la bassa aspettativa di vita sia fortemente influenzata da quella che è una vera e propria epidemia generalizzata.

Perché sia difficile ridurre questi numeri lo sappiamo un po’ tutti, nel senso che, ad ora, HIV non ha cura né vaccino, e i sieropositivi possono contare solo su una terapia orale che va presa ogni giorno per tutta la vita. Considerando che molte persone si ritrovano positive già alla nascita, contraendo il virus dalla madre, questo significa dover assumere un farmaco, con i suoi effetti collaterali, ogni singolo giorno di tutta la vita. Aggiungiamo il fatto che essere HIV positivi si porta dietro uno stigma all’interno della comunità, che influenzerà le relazioni sociali e affettive per tutta la vita.

Facile capire come l’abbandono del trattamento sia diffuso. Inseriamo tutto questo in un contesto sociale e culturale che vede nei rapporti sessuali promiscui e non protetti un segno di mascolinità vincente, ma anche dove molte donne sieropositive non hanno modo di essere seguite durante la gravidanza e partorire in strutture sanitarie adeguate, aumentando il rischio di trasmettere la malattia ai figli. 

Come tutti i problemi complessi, anche questo non ha una soluzione semplice.

Enormi quantità di denaro sono piovuti sul Mozambico, prevalentemente sottoforma di finanziamenti ad ONG, per occuparsi in modo verticale solo di questa malattia (si usa questa definizione per indicare un progetto che si occupi specificamente di un problema. Esempio pratico: progetto anti-malaria uguale investimento verticale; rafforzamento del servizio sanitario: intervento orizzontale).

Questo modello è sempre più contestato, perché di fatto non tiene conto della complessità della realtà e di quelli che abbiamo definito i determinanti sociali delle malattie. Le malattie possono avere un unico agente eziologico, quindi un’unica bestiolina che entra nel nostro corpo e ci fa male, ma si innestano in un sistema sociale, culturale ed economico che sostiene e favorisce (o ostacola) il contagio, se parliamo di malattie infettive. E qui sono proprio queste condizioni generali ad essere problematiche. Lo dico senza intento di giudizio e senza senso di superiorità, ma come constatazione di un dato di fatto. Anche in Italia abbiamo molti problemi, questo non vuol dire che non sia giusto riconoscerli negli altri contesti quando li notiamo. 

Non voglio scadere in un elenco di sfighe, ma è importante dare alcuni numeri per rendersi conto dell’entità del problema. Prendiamo il numero di medici: in tutto il paese c’è un medico ogni 18 100 abitanti. Detta così non si capisce, quindi dividiamo il numero di popolazione (circa 30 milioni) per 18 100 e ci accorgiamo che in tutto il paese ci sono 1 700 medici circa. In Italia (non perché il nostro Paese sia migliore, ma perché credo sia il termine di paragone a noi più familiare) sono 403 454, circa 1 medico ogni 200 persone. Per di più sono distribuiti in maniera molto disuguale: per esempio nel 2015 su un totale di 277 chirurghi, 166, il 60%, si trovava nelle sole 4 Provincie del sud, più ricche e sviluppate. Per le altre 7, con 22 milioni e mezzo di persone, rimanevano 111 chirurghi circa. 

Aggiungiamo altri tasselli: le strade.

Le strade asfaltate sono poche e corrispondono alle principali direttrici commerciali, le altre sono sterrate, in condizioni più o meno precarie. La distanza media che le persone devono percorrere per raggiungere il centro sanitario più vicino è di circa 12,4 km, percorsi a piedi o con mezzi pubblici o privati, normalmente moto-taxi o piccoli minivan che fungono da servizio pubblico chiamati chapa (che significa lamiera).

Ancora: circa il 50% delle persone ha accesso ad acqua pulita e il 25% a sistemi di fognature efficienti. Dal punto di vista sociale, abbiamo ancora un 48% di giovani ragazze che si sposano prima di raggiungere i 18 anni (con punte oltre il 60% nelle provincie del nord).

Per finire, c’è il grande capitolo delle differenze culturali. Rispetto troppo l’antropologia medica per riassumerla grossolanamente in 4 righe, ma ci tengo a introdurre nel quadro la complessità che credenze spirituali o religiose e norme culturali giocano nello spiegarsi l’origine delle malattie e accettare interventi preventivi o curativi. 

Accanto alle malattie “tradizionali” africane, quindi malaria, HIV, tubercolosi, colera ecc, stanno emergendo rapidamente tutti quei disturbi definiti non-trasmissibili, legati allo stile di vita: diabete, ipertensione, sindrome metabolica, patologie cardiovascolari, cancro. La compresenza di questi due problemi è riassunta dalla formulazione double burden of disease, doppio fardello di malattia, ed è un fenomeno che sta caratterizzando quasi tutti i Paesi africani.

La popolazione si ritrova a soffrire di malattie “occidentali” senza aver ancora superato o molto ridotto l’impatto delle malattie tradizionalmente epidemiche.

È interessante vedere come le malattie non trasmissibili si presentino in maniera opposta rispetto ai paesi occidentali. Mi spiego meglio: nel nord del mondo sono le persone in difficoltà economica che si nutrono peggio e hanno stili di vita meno salutari, tanto che il New York Times aveva riassunto il concetto con “The smaller the dress size, the larger the apartment”. Questo è dovuto al fatto che da noi il cibo spazzatura costa meno di quello sano, le persone meno abbienti vivono in contesti urbani più disagiati, più distanti dal luogo di lavoro e con meno aree verdi, e hanno un livello di istruzione e di health literacy (che in sostanza significa avere le nozioni su cosa è importante per la propria salute) minori. 

Qui è il contrario, le persone con maggiore benessere sono quelle che fanno una vita più sedentaria e mangiano più alimenti ricchi di zuccheri semplici ma poco nutritivi. La popolazione rurale è semplicemente troppo povera per evitare di spostarsi a piedi, eseguire lavori di fatica e nutrirsi dei prodotti dell’orto.

Quindi, se da un lato è difficile pensare che una persona possa migliorare il suo stato di salute se non esce da un contesto di povertà materiale, non ha accesso ad acqua pulita e agli altri fattori che abbiamo indicato, è altrettanto miope non fornire una buona istruzione e un livello adeguato di educazione sanitaria.

Il Paese ha grandi ed evidenti necessità e se da una parte è una sfida stimolante lavorare per affrontare problemi così tangibili, dall’altra parte mi sembra spesso di mettere un cerottino su uno squarcio di mezzo metro. Il desiderio di aiutare è sempre da elogiare, ma non vuole automaticamente dire che ogni aiuto esiti in un risultato positivo.

Banalmente, gli stipendi che le ONG pagano ai professionisti sanitari sono più o meno gli stessi che pagano ai loro dipendenti espatriati. Se non c’è niente di male a pagare in maniera uguale lavori uguali, questo a portato ad un esodo del personale dal servizio sanitario nazionale alle ONG, peggiorando ulteriormente la carenza di risorse umane.

Per questo lavorare sulle politiche di un paese è anche lavorare per la sua salute.

Nota: tutti i numeri che ho raccolto vengono da report, studi o dati ufficiali. Non ho citato le fonti perché si tratta di un contributo di un blog ma se qualcuno/a fosse interessata posso indicarle.

di Elena Mazzalai

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