Uno degli esercizi linguistici più interessanti e stimolanti che possiamo fare, sebbene sia poco conosciuto, è quello della cosiddetta biografia o autobiografia linguistica. Ne hai mai sentito parlare?
L’autobiografia linguistica la possiamo definire come un processo di autoanalisi circa il proprio repertorio linguistico, ovvero una autoriflessione relativamente al nostro modo di parlare, che sia la cadenza o la scelta di specifici termini o l’uso di particolari espressioni. Più semplicemente, è la vita del nostro modo di parlare che, come noi, cambia e si trasforma per effetto delle cose con cui viene a contatto. In particolar modo, l’aspetto più interessante di questo esercizi è nella consapevolezza che si acquisisce successivamente al lavoro. Mi spiego meglio.
La linguistica è una scienza e come tale analizza al microscopio tutti i tasselli che la compongono. Tuttavia, se osserviamo la lingua da una prospettiva d’insieme di tutti i pezzettini del puzzle prenderemo subito consapevolezza di meccanismi che ci erano sfuggiti guardandola troppo da vicini.
Personalmente, come ex studentessa di lingua, adesso insegnante e più in generale appassionata di lingue straniere, rifletto costantemente sul mio modo di parlare. Nonostante ciò, l’autobiografia linguistica mi ha fatto rendere conto di influenze dialettali, questioni culturali e prossimità linguistiche che “al microscopio” mi erano sfuggite.
Vi lascio qua la mia autobiografia linguistica, sperando che possa servirà da modello o spunto qualora doveste scriverne una vostra.
Il filo rosso che lega la mia autobiografia linguistica credo sia quella che definirei la mia “curiosità linguistica”. Grazie inevitabilmente alla mia formazione linguistica, sono convinta che ogni percorso di studi deve essere motivato dalla curiosità, dalla voglia di scoprire ed imparare sempre. Il discorso non deve solo limitarsi alla lingua: il nostro modo di comunicare non è altro che il riflesso della nostra cultura e del nostro pensiero.
Nel mio percorso accademico, ho dedicato molta attenzione al rapporto tra lingua e cultura e alla loro interazione, come quadro di partenza che mi ha permesso di approfondire e studiare il preconcetto linguistico che il portoghese, mia lingua di studio, soffre in Italia, ahimè vittima di una distorta visione che gli italofoni ne hanno.
Nonostante i miei vari studi in merito, credo di aver capito veramente l’idea di lingua come cultura in una torrida vacanza in Sardegna all’età di 7-8 anni, dove, parlando con una donna del luogo, disse “Perché voi al Continente non fate così?”. Chiesi a mia madre cosa fosse il Continente e mi rispose che era un’espressione sarda per indicare il resto dell’Italia. Con il senno di poi, quella donna mi fece capire in quattro parole quanto la lingua sia cultura. Nella parola “continente” era racchiuso tutto il forte sentimento isolano, indipendente e chiuso sardo che si sente spesso così lontano e, forse così dimenticato, dal resto d’Italia tanto da considerarla un mondo altro, un altro continente e tutto con una sola parola.
Da quando sono nata ho sempre vissuto a Capena, paese di poco più di 10.000 abitanti nella provincia Nord di Roma. Sebbene il mio territorio sia ricco di migranti abruzzesi e napoletani insediatasi negli anni ‘70 in quel di Leprignano, antico nome del mio paesino, io mi sono posso definire una “vera autoctona”.
A memoria dei miei nonni non ho né parenti né avi che abbiano vissuto fuori dalla provincia romana. Mio padre è originario di Capena, con genitori entrambi capenati di nascita, mentre mia madre è di Morlupo, paesino vicinissimo a quello di papà. Mio nonno materno era morlupese da generazioni, mentre mia nonna materna ha origini di Castelnuovo di Porto, altro paesino a poco più di 10 km da Capena.
A livello linguistico il mio ambiente famigliare è stato fin da piccola come “protetto” dal dialetto: mia madre, con la quale passavo la maggior parte del mio tempo, ha sempre cercato di parlarmi il più possibile in italiano standard senza influssi dialettali. È probabile che questo suo desiderio partisse dal suo disagio di figlia di dialettofoni. Ciò mi ha permesso di essere come “esente” da calate dialettali locali, tranne quella romanesca, che è aumentato di molto da quando ho iniziato a frequentare assiduamente Roma per impegni universitari.
Da competente passiva, da piccola l’unico mio contatto con il dialetto era a casa dei miei nonni materni di Morlupo, pienamente dialettofoni. Definirei il morlupese una variante dialettale dai suoni forti e chiusi, con una grande presenza di chiusura vocalica in u, soprattutto a fine parola. Di riflesso dal dialetto romanesco, è caratterizzato da un importante raddoppiamento fonosintattico.
Detto ciò, è sicuramente il lessico la parte più interessante. Spesso mi sorprendo a imparare nuove parole che mi strappano sorrisi per il modo straordinario di riprodurre con i suoi suoni il concetto che si vuole comunicare, come una, molto onomatopeica, che ho imparato due settimane fa ovvero /kwakwa’gjola/, per indicare un ristagno d’acqua. Un esercizio che mi diverte molto è cercare sempre un corrispettivo italiano di una parola dialettale nuova che imparo e non sempre riesco a farlo.
Per quanto riguarda la mia formazione scolastica, ho frequentato le scuole sia elementari, linguisticamente poco produttive, che superiori di primo grado a Capena. Da piccola, non amavo per nulla scrivere, anzi lo detestavo come detestavo la mia maestra di italiano e penso proprio che le due cose sia molto legate tra loro. Tutto è cambiato con la mia professoressa di italiano delle medie che, oltre ad avermi insegnato a scrivere “per davvero”, mi ha trasmesso l’importanza della conoscenza della grammatica, come fondamenta per il mio italiano.
Per quanto riguarda lo studio delle lingue straniere ho sempre avuto le idee chiare: ho amato fin da subito lo spagnolo, iniziato a studiare in prima media, quanto ho sempre odiato l’inglese, iniziato traumaticamente in primo asilo. A mio parere ogni studente di lingue straniere deve aver chiaro un presupposto di base fondamentale: non si può conoscere né scrivere né parlare bene una lingua straniera senza conoscere bene la propria lingua madre. Non a caso alle scuole medie, sia anche per l’incontro con lo spagnolo, mia seconda lingua straniera di studio universitario, il mio italiano è iniziato a maturare molto.
Convinta di tutto ciò, ho deciso di proseguire i miei studi linguistici iscrivendomi al Liceo linguistico “G.V. Catullo” di Monterotondo, cittadina a pochi chilometri da Capena dove, oltre a continuare lo studio dello spagnolo, ho aggiunto il francese, altra lingua che mi piace moltissimo e continuo a coltivare ancora oggi autonomamente e che mi ha regalato molti francesismi che uso correntemente come clichés, c’est la vie, ça va sans dire o stage.
Il liceo mi ha fatto capire due cose: l’assurdità di non insegnare il latino ad un liceo linguistico dove due lingue di studio, oltre all’italiano ovviamente, su quattro sono romanze, e l’importanza dell’insegnante nella formazione di un allievo. Ho avuto la sfortuna di cambiare 6 professori di spagnolo solo al quinto anno e 6 di inglese in tutto il quinquennio, ancora una mia grande lacuna, ma l’immensa fortuna di avere due professori di italiano eccezionali. Con il professore del biennio sono diventata adulta, come persona e come italofona, ho affinato la mia scrittura e la mia ortografia, sviluppato la mia creatività e imparato a parlare davanti ad un pubblico. Con la professoressa del triennio ho posta le fondamenta per la mia cultura, grazie alle sue memorabili lezioni di lingua italiana e letteratura. Per quanto riguarda il mio cosiddetto gruppo di pari, che si è ampliato soprattutto dopo aver iniziato a frequentare Monterotondo, la prima considerazione che mi sento di fare è che, nonostante mi trovi a pochi chilometri di distanza dal mio paese, si nota molto un clima più “urbano “a livello linguistico. Se a Capena mi è molto semplice incontrare miei coetanei semi-dialettofoni, a Monterotondo tutti i miei amici sono italofoni. Tale situazione forse potrei giustificarla per l’alta percentuale di abitanti originari di Roma che si sono trasferiti nella prima provincia per allontanarsi dalla grande metropoli e quindi meno abitanti del luogo e di conseguenza una ridotta diffusione del dialetto. Ciò mi è risultato evidente nel momento in cui mi sono resa conta di non conoscere il dialetto monterotondese nonostante passi e abbia passato molto più tempo a Monterotondo che a Capena.
Inevitabilmente il mio italiano si è evoluto notevolmente quando ho iniziato a frequentare l’università a Roma. Determinante è stato lo studio linguistico avanzato di due lingue straniere che non prescindono da una conoscenza avanzata della propria L1: il portoghese (che avevo iniziato a studiare autonomamente tramite un corso online, musica e serie tv dai 18 anni) e lo spagnolo, che studio da ormai 12 anni. Paradossalmente, mi hanno regalato poche espressioni da usare quotidianamente perché dovrebbero essere sempre spiegate e per questo non uso mai.
Oltre ad uno studio canonico della lingua ho sviluppato competenze più tecniche sui vari meccanismi linguistici in uso e le varie implicazione culturali. Come gruppo esterno, i compagni con cui ho interagito in questi quattro anni di studi sono per la quasi totalità parlanti di varietà dialettale romana o laziale. Forse anche per questo ho notato un aumento importante, nel mio italiano neo-standard, di espressioni romanesche come “daje”, “sgravare” e “pisciare” (nel senso di non presentarsi ad un appuntamento o non fare una cosa che avresti dovuto fare). I pochi contatti con fuori sede originari di altre regioni d’Italia, principalmente meridionali, ha sviluppato in me la coscienza di fare uso ricorrente di espressioni che non ritenevo regionalismi laziali, ma che lo erano visto che persone, ad esempio, del sud Italia non mi capivano, come il verbo “sbiascicare”.
Una delle persone che, in questo ultimo anno, ha arricchito molto il mio bagaglio linguistico è una ragazza brasiliana che ho conosciuto su un’app di messaggistica per imparare le lingue straniere, con cui ho instaurato un rapporto di amicizia a distanza. Oltre ad avere chiaramente migliorato il mio portoghese e ampliato il mio lessico quotidiano, mi sono trovata a riflettere molto sul mio italiano e a fare spesso uno stimolante lavoro di traduzione per spiegare a lei in portoghese la grammatica italiana. Spero sia una competenza che mi sarà utile in un futuro professionale, in cui avrei molto piacere ad incentivare la diffusione della lingua portoghese in Italia e a sfatare quei chichés linguistici e culturali fortemente radicati nelle persone.
Adesso sei pronti a scrivere la tua autobiografia linguistica
L’ha ripubblicato su epentesie ha commentato:
ripubblico questo interessantissimo pezzo sull’Autobiografia Linguistica come futuro promemoria di scrittura 🕉
"Mi piace""Mi piace"